CENTO ANNI DI GIANNI RODARI

(Di libri d’infanzia immortali)

Quest’anno, il 23 ottobre, ricorre il centenario della nascita di Gianni Rodari, così ho deciso di dedicargli l’articolo del mese.

Gianni Rodari è stato scrittore, giornalista, maestro e pedagogista; è nato nel 1920 a Omegna, sul lago d’Orta e i suoi libri continuano ad avere un posto di grande rilievo nella letteratura italiana. Non a caso, l’editore Lindau ha appena pubblicato Cipollino nel Paese dei Soviet, un saggio che analizza il successo ottenuto in URSS da Rodari.

Insieme alle tante iniziative dedicate a questo centenario, anche io ho deciso di fare la mia parte, perciò ho riletto La Freccia Azzurra, uscito per la prima volta nel 1964.
La mia copia è di Editori Riuniti, della seconda ristampa di maggio 1998, con le illustrazioni di Gianni Peg e Lorena Munforti.
Ho letto questo libro quando avevo sei o sette anni. Ricordo che mi era piaciuto tantissimo e che l’ho riletto più volte, anche a distanza di anni.

È stato il primo libro con il quale ho scoperto che i film non sono uguali ai libri da cui sono tratti; ho imparato che le trasposizioni cinematografiche sono simili alle storie su carta e a volte ne raccontano una versione un po’ diversa (ma questa è un’altra storia).

Il primo di ottobre, quando ho ripreso in mano La Freccia Azzurra, mi sono presa il tempo di studiarlo.
Subito prima del frontespizio una me bambina ha infilato un pezzo di carta rettangolare, ritagliato da un foglio A4, chiaramente a mano libera, perché il bordo destro non è parallelo al sinistro. Sopra il foglietto c’è scritto, in stampatello maiuscolo e a matita: “SEGNA LIBRO DI GIULIA ZAPPATERRA VIA F. TESTI xx!!!!!”. Semplice e chiaro, no?
Una me un po’ più grandicella ha apposto la propria firma in alto al centro sulla prima pagina bianca, con una penna rossa.
L’ho letto talmente tante volte che le pagine si sono un po’ scollate e alcune sono tenute insieme con lo scotch trasparente.

Di cosa parla questo libro? È la storia di una Befana burbera, quasi baronessa, che ha un negozio di giocattoli con le vetrine illuminate tutto l’anno, dove i bambini possono scegliere i regali che vorranno per l’Epifania e i genitori potranno comprarli. La Befana non regala niente, per lei i bambini poveri sono soltanto uno spreco di tempo.

Illustrazione dal libro La Freccia Azzurra

I giocattoli sono vivi, ognuno ha le proprie caratteristiche e la propria personalità, spesso influenzate dalle disattenzioni degli artigiani che li hanno costruiti. Così l’Orso Giallo è un po’ lento nei ragionamenti perché ha la testa piena di segatura, il Capitano Mezzabarba sta sempre girato da un lato per non far vedere che gli è stata dipinta soltanto metà barba, il Pilota Seduto non può mai lasciare il suo aeroplano perché non gli hanno costruito le gambe e il cane Spícciola non riesce ad abbaiare perché è soltanto un cane di pezza.
Nonostante tutti i difetti di fabbrica, i giocattoli sanno emozionarsi e affezionarsi e un giorno decidono di scappare. Per quale motivo?
Francesco, un bambino che a dieci anni deve lavorare per mantenere la famiglia, non può permettersi il meraviglioso trenino elettrico che si trova in primo piano nella vetrina della Befana. La Freccia Azzurra è troppo costosa e la Befana non si mette certo a fare regali a chi non può pagare.
Così, il cane Spícciola organizza la fuga: lui fiuterà le tracce del bambino e insieme agli altri giocattoli si farà trovare a casa sua nel giorno dell’Epifania.
Durante il tragitto, poco alla volta i giocattoli decidono di regalarsi ad altri bambini poveri, dimostrando coraggio nel partire da soli per una nuova avventura, e amore incondizionato.

In una delle parti più commoventi, la Bambola Rosa decide di rimanere con una vecchina che sta dormendo in un portone. Al mattino, però, la vecchina non si sveglia e la bambola verrà regalata alla figlia di un carabiniere. “Ma la Bambola Rosa non cessò mai di pensare alla vecchina tutta gelata accanto alla quale aveva passato la notte dell’Epifania. E ogni volta che pensava a quella vecchina si sentiva un grande freddo al cuore.

È una storia magnifica che insegna tantissimo: generosità, speranza, solidarietà, altruismo, rispetto di chi è diverso o in difficoltà. Dovrebbe trovarsi nella libreria di ogni bambino, per depositare un semino di amore nelle menti che si stanno formando.

I libri di Gianni Rodari non hanno solo contribuito, quasi vent’anni fa, a creare le fondamenta della persona che sono, ma hanno anche segnato alcune tappe della mia vita. Per esempio, a dieci anni mi sono rotta un dito e ho dovuto tenere il gesso per un mese. Quando sono andata al pronto soccorso subito dopo l’incidente (ero in casa, camminavo guardando una sorta di flipper che tenevo in mano e sono scivolata sul monopattino che c’era in mezzo alla stanza; mentre cadevo in avanti mi sono appoggiata con tutto il peso sulla mano sinistra e mi sono ritrovata con l’anulare fratturato) ho portato con me I cinque libri, una raccolta di favole, storie e filastrocche lunga più di 700 pagine. Ho cominciato il libro quel giorno, mentre aspettavo che mi mettessero il gesso e mi sono ripromessa che l’avrei finito quando me l’avessero tolto.

La mia storia preferita di questa raccolta è C’era due volte il barone Lamberto, pubblicata per la prima volta nel 1978 e ambientata sull’Isola di San Giulio, nel lago d’Orta, praticamente a casa di Rodari.

Il barone Lamberto è un uomo vecchissimo e ricchissimo, che possiede ventiquattro banche e numerose ville in giro per il mondo. Sull’isola vive con il fidato maggiordomo Anselmo, che si occupa di ogni aspetto della vita e della salute del barone. Un giorno, di ritorno da un viaggio in Egitto, il barone decide di assumere sei persone che dovranno ripetere a turno e in continuazione il suo nome (Lamberto, Lamberto, Lamberto…). Nel corso di alcune settimane, il barone comincia a ringiovanire. Il mondo esterno è ignaro di quanto sta accadendo sull’isola, e lo è anche l’unico nipote del barone, il giovane Ottavio, che ama scommettere ai birilli e scialacquare i soldi bevendo gazzosa. Deciso ad appropriarsi dell’eredità dello zio anche a costo di ucciderlo, Ottavio andrà sull’Isola di San Giulio. Entreranno in scena anche ventiquattro banditi, che prendono il barone in ostaggio e chiedono un risarcimento di un miliardo (di lire) a testa, e i ventiquattro direttori delle Banche Lamberto con i rispettivi ventiquattro segretari. Durante il periodo dell’assedio, sull’isola, e sulla terraferma dove si segue la vicenda con trepidazione, succederà di tutto.
Il lieto fine non manca, anche se rimane aperto com’è tipico di Rodari: “Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della storia. […] Ogni lettore scontento del finale può cambiarlo a suo piacere, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche tredici. Mai lasciarsi spaventare dalla parola FINE.

Questa ricorrenza è stata una bella occasione per rispolverare vecchie storie che non smettono mai di avere qualcosa da raccontare, perché sanno essere attuali anche dopo tanti anni.

E tu? Hai in casa qualche libro della tua infanzia e di cui ti ricordi con affetto particolare?
Se ti va, lasciami un commento, sono curiosa!

Alla prossima e… Avanti tutta!

SETTEMBRE

(il vero Capodanno)

Da qualche parte ho letto che non possiamo più considerare il primo di gennaio come il primo giorno dell’anno, ma che invece questo onore spetta al primo di settembre. Pensandoci, in fondo è vero. È a settembre che si ricomincia sul serio, si torna dalle vacanze, si pianifica il nuovo anno, si fanno buoni propositi, si mette in ordine.
Per me, almeno, è sempre stato così. Settembre ha significato per anni il ritorno a scuola, il passaggio da una classe all’altra, come se si diventasse davvero più grandi soltanto il primo giorno di scuola. In due diversi settembre sono partita per l’Erasmus, con una grande agitazione nella mente e nel cuore. L’anno scorso, settembre è stato il mese in cui sono passata da tirocinante a dipendente, nell’azienda in cui lavoravo.

Per tutti questi motivi, questo primo di settembre mi è sembrato di aprire un nuovo capitolo; lo sentivo nell’aria, che si è fatta più fresca dopo le piogge degli ultimi giorni di agosto, e che al mio naso era portatrice di novità e occasioni.

Come ogni anno, il primo di settembre mi sono svegliata con grandi aspettative, con mille piani per il futuro, la voglia di fare cento cose diverse, iscrivermi, seguire, imparare, recuperare, ricordare… Mi sono sentita come se il mio anno personale si fosse concluso il 31 agosto e fosse ora di voltare pagina e preparare tutta una nuova vita.

In qualche modo è stato davvero così, perché il primo di settembre ho cominciato a dare lezioni di inglese alla mia prima vera studentessa. Non è certo come dare ripetizioni, perché stiamo costruendo il percorso insieme, senza seguire un programma obbligato e obbligatorio. Prima di cominciare ho abbozzato una traccia per le lezioni, ma sono sicura (felicemente sicura) che le deviazioni saranno la regola, perché non si possono imparare le lingue in modo statico, seguendo il percorso prefissato come un cavallo con il paraocchi.

Ha dell’incredibile, ma anche quest’anno settembre è stato associato al rientro in classe, nonostante tutto. E mi sono ritrovata a pensare. Mi è sempre piaciuto andare a scuola, e per fortuna sono sempre capitata in buone classi, dove si instaurava un rapporto di cooperazione tra studenti e insegnanti. Devo dire che anche all’università sono riuscita a trovare dei compagni con cui condividere quotidianamente gioie e dolori, e ne sono davvero grata.

Gli anni migliori sono stati quelli del liceo, perché fino agli ultimi mesi del quinto anno non avevo la più pallida idea di quale università avrei scelto. Ed era bellissimo così, perché avevo tutte le porte aperte, potevo alzarmi la mattina e decidere di intraprendere una strada, per poi cambiare idea il mese dopo. Certo, le lingue sono sempre state un punto fermo, ma potevo andare ovunque (più o meno, eh, non avrei mai fatto matematica).

Quello che più mi manca degli anni da studentessa è il cameratismo che si crea per superare interrogazioni, verifiche, esami. Ho notato che nel mondo del lavoro, ma soprattutto nel mondo delle partite IVA, si tende piuttosto a essere rivali. Un esempio: sulla rete si trovano tantissimi gruppi più o meno informali di traduttori e interpreti, dove ci si scambiano esperienze e consigli, ma anche, devo dirlo, insulti non sempre velati e bastoni tra le ruote. Insomma, siamo tutti stati novellini, abbiamo tutti cominciato dalla base, ci siamo tutti posti le stesse domande! È chiaro che per chi lavora nel settore da anni il problema di quali tariffe applicare o come comportarsi con un determinato tipo di testo non si pone più, ma questo non vuol dire che bisogna mangiare la faccia a chi fa domande ingenue. Domande che, per chi è agli inizi, sono le fondamenta.

Per il momento non sono ancora stata presa a male parole per una domanda, ma in un paio di occasioni ho chiesto delucidazioni in merito a fatture e altre questioni contabili e ho sempre ricevuto risposte vaghe, per la serie “faccio finta di aiutarti per farti capire che sono un professionista navigato ma in realtà giro intorno alla tua domanda e non ti rispondo così mentre leggi la mia risposta aggrotti la fronte e devi rileggerla perché non hai capito niente e infatti non c’è niente da capire perché non ti ho dato una risposta utile”. Hai aggrottato la fronte mentre leggevi l’ultima frase? Ecco, certe risposte di certi cosiddetti colleghi funzionano così. Sono momenti in cui rispondi “vaffa” ad alta voce, poi cerchi di comporre una replica pacata che chiuda la conversazione.

Ti chiedo scusa per queste riflessioni agrodolci, non sono tutti così, ci sono anche molti colleghi con cui fare rete, con cui si condivide un progetto e si finisce per scambiarsi opinioni e incoraggiamenti anche a distanza di tempo. Grazie a queste persone la vita da freelance non è poi così malvagia.

*

Ed eccoci qui alla recensione del mese.

Ho letto l’ultimo fantasy tre anni fa, una saga in francese che mi ha accompagnata nei primi mesi del mio Erasmus a Bruxelles, così ho deciso che era giunto il momento di recuperare una vecchia passione. Ho scelto un’uscita recente:

Il Mare Senza Stelle, di Erin Morgenstern, nella traduzione di Donatella Rizzati (Fazi Editore, collana Lainya).

Da dove cominciare. È un fantasy di riflessione, più che d’azione. Non ci sono epiche battaglie, né viaggi impossibili, né creature mitologiche o personaggi crudelissimi. O almeno, direi che non ci sono nella storia principale. In questo libro ci sono storie, ci sono porte, ci sono altri libri. Ci sono destini che si incrociano, occhi che vedono il futuro e custodi senza tempo.

Il protagonista, Zachary Ezra Rawlins, è un nerd appassionato di videogiochi e un giorno trova un libro misterioso che parla di un episodio della sua infanzia. Per cercare di capire da dove arriva quel libro, Zachary scopre un mondo sotterraneo, destinato a morire e a rivivere, così come la fine di una storia segna l’inizio di un’altra. Ogni altro personaggio che si incontra nel libro, una pittrice, una collezionista, un uomo che ha deciso di chiamarsi Dorian, persino innumerevoli gatti, non sono quello che sembrano, sono molto di più.

Non saprei scegliere una citazione calzante per questo libro, è possibile che aprendo una pagina a caso, e poi un’altra, e un’altra ancora, ritrovi una frase che mi ha colpita alla prima lettura. E che lettura sofferta è stata! Volevo saperne di più, ma non volevo che finisse in fretta, così mi sono obbligata a leggerlo piano piano. Ho sognato tantissimo a occhi aperti con questo libro, che finalmente mi ha riportata in un mondo fantasy che tanto mi mancava. Unica pecca, ho trovato una parte del finale un po’ troppo frettolosa, mi sarei aspettata di trovare un, non so, un “perché” più approfondito… Ma a parte questo mi è piaciuto davvero tanto.

Ed ecco, ho infine trovato cosa lasciarti: una stella di carta è stata spiegata e ripiegata per formare un minuscolo unicorno, ma l’unicorno ricorda il tempo in cui era una stella e un tempo precedente in cui era una parte di un libro e, a volte, l’unicorno sogna il tempo ancor prima di quando era un libro, quando era un albero, e il tempo anche più lontano di questo, quando era una stella diversa.

Alla prossima e… Avanti tutta!

CAMBIO DI PROGRAMMA

(per non farsi mancare niente)

Va bene, ho capito, devo cominciare a preparare il piano B per ogni programma, ma anche il C, e il D…

In questo appuntamento vorrei parlarti di cose diverse tra loro, perciò ho pensato di riassumertele adesso, così puoi decidere cosa leggere e cosa saltare.

Ti parlerò di:

una quarantena inaspettata, perché sono stata a contatto con un positivo e mi sono ritrovata, di nuovo, rinchiusa in casa.

– la mia collaborazione con il Festival del Cinema Ritrovato, che anche quest’anno mi sta deliziando e distruggendo con film da tutto il mondo.

– alcuni libri che ho letto nell’ultimo mese; niente recensioni, soltanto le mie personalissime impressioni.

– perché ho scelto proprio l’immagine che vedi per questo articolo.

Bene, cominciamo!

*
La seconda quarantena. Eccolo qui il primo cambio di programma di luglio. Dovevo incontrare amici che non vedevo da tempo, passare un weekend al mare, fare un giro di librerie prima che chiudessero per le ferie, e invece. Invece sono rimasta in quarantena per tre settimane, perché sono stata a stretto contatto con un positivo al virus.

È stata un’esperienza abbastanza surreale, perché per fortuna nessuno è stato male, ma ogni giorno era necessario igienizzare con l’alcool e portare la mascherina in casa. Ne sono uscita con un mucchio di paranoie e una boccetta di alcool spray sempre a portata di mano.

Però ho trovato tutti molto ben organizzati, il Centro Igiene mi chiamava ogni giorno per sapere come stavo, le informazioni erano chiare e puntuali… Insomma, i supereroi della sanità hanno fatto di tutto per non farci andare nel panico e renderci la reclusione più leggera.

Ah giusto, il tampone. Dopo aver sentito alcune testimonianze di persone che già l’avevano fatto, ero pronta al peggio. Perché, ecco, ti entrano a fondo nel naso. Una sorta di allenamento alla mummificazione, ho pensato. Ma in realtà è stato molto meglio di quanto credessi ed essendo risultata negativa da subito ne ho dovuto fare soltanto uno.

*
Il Cinema Ritrovato a Bologna. La quarantena forzata è stata però allietata da una buona notizia: anche quest’anno sono nella squadra degli addetti ai sottotitoli del Festival del Cinema Ritrovato.

Di solito i film che mi vengono assegnati fanno parte della rassegna Cinemalibero; sono film che vengono da tutto il mondo e quest’anno mi hanno portata in Angola, Mozambico, Cina, India, Germania, Filippine, Guyana francese… Ho fatto il giro del mondo stando seduta alla scrivania e come ogni anno ho imparato tantissimo, ho incontrato rivoluzionari, poeti, contadini, sceneggiatori, cantanti, sognatori, registi, architetti…

La peculiarità del Cinema Ritrovato è che le pellicole in lingua originale presenti nella programmazione viaggiano per tutti i festival del mondo, quindi i sottotitoli vengono lanciati in sala durante la proiezione. Ogni volta è uno spasso e un terrore.

Ricordo che al mio primo anno, nel 2017, un film era diviso in due diverse bobine, perciò al termine della prima il proiezionista doveva inserire a mano la seconda. Non so bene cosa fosse successo durante il cambio, fatto sta che d’improvviso l’audio sparì. Andai avanti a memoria con un paio di sottotitoli, poi decisi di intervenire. Uscì drammaticamente dalla mia cabina e altrettanto drammaticamente denunciai la sparizione del sonoro. Non so quanto sconvolta fosse la mia faccia, ma in fretta e furia il proiezionista trafficò con qualche pulsante e tutto tornò alla normalità. Finii di lanciare la seconda parte del film col cuore in gola, pronta a intervenire di nuovo, ma sentendomi un’eroina.

Sempre quell’anno, mi era stato assegnato un film africano in francese e wolof (per il wolof usavo come riferimento la traduzione in inglese). Mi avevano avvertita che la copia su cui avevo lavorato poteva essere diversa da quella che sarebbe stata proiettata, di non preoccuparmi se non avevo i sottotitoli di alcuni dialoghi. Era un film abbastanza lungo, in cui francese e wolof si alternavano spesso. Com’era ovvio che fosse, la parte in più presente nella pellicola della proiezione era in wolof. Ti pareva. Per far ripartire i miei sottotitoli scelsi a sentimento un punto che mi sembrava di riconoscere, poi, a parte qualche altro piccolo scambio di battute sempre in wolof, non ci furono altri intoppi.

Ma a parte questi e altri occasionali episodi simili, il Cinema Ritrovato è sempre un’esperienza entusiasmante. Quante volte in cabina, presa dall’atmosfera, mi sono ritrovata a recitare insieme agli attori mentre ne proiettavo le parole sullo schermo, o mi sono indignata per la sorte di un personaggio, ho riso, a volte quasi pianto, nonostante sapessi già tutto di quelle storie.

*
Libri. Come possono in una quarantena mancare i libri? Ecco quindi alcune letture di cui ti vorrei parlare.

Madrigale senza suono, di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri).

Ho letto questo libro perché era tra le letture consigliate per il corso di traduzione letteraria che sto seguendo. Che dire, ho capito cos’è un romanzo gotico. E ora ti spiego perché.

Il libro è un intrecciarsi di un manoscritto del Seicento, che riporta la storia del compositore madrigalista Gesualdo da Venosa, con commenti di Igor Stravinskij. La musica è grande protagonista in questa storia e spesso viene descritta come unica ragione di vita, unica vera compagna, unica salvezza.
Nel libro, Stravinskij si inserisce nella narrazione del manoscritto, che costituisce la trama principale, raccontando di come voglia celebrare Gesualdo da Venosa componendo una musica che diventi un monumento alla sua memoria. E anche Madrigale senza suono è un monumento. È una costruzione in cui ogni parola e ogni segno di punteggiatura diventano fondamentali. L’atmosfera del manoscritto è decisamente gotica; quando cominci a leggere sembra quasi di entrare sotto un tendone, dove l’aria è un po’ pesante, un po’ cupa, ma intrigante. Ci sono parole, immagini e azioni che vengono ripetute, come se fossero i mattoni, le porte e le finestre di questo monumento. Ci sono passaggi dove i punti e virgola e i due punti sembrano quasi le note di un fitto pentagramma. Tutto ritorna, in questo libro, ma una risposta alla fine non c’è.
Il delitto si può subodorare da subito, le motivazioni si scoprono poco a poco, il colpevole è noto. E questa è solo la prima metà della storia, che da Napoli passa a Ferrara (e qui, da brava ferrarese quale sono, devo dare dieci punti a Grifondoro), per poi tornare indietro e complicarsi, farsi ancora più gotica. Ma cosa significa, “gotica”? Non te lo so spiegare, ci vogliono libri del genere per capirlo. Quindi, se hai mai letto un libro che definiresti gotico, fammelo sapere perché vorrei rivivere l’esperienza!

Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, testo a fronte nella traduzione di Fernanda Pivano (Einaudi).

Credo di aver cominciato a leggere quest’antologia circa due anni fa. Me la sono presa comoda, ho messo il libro sul comodino e ho lasciato che mi chiamasse quando preferiva. A volte ho letto una decina di poesie una dietro l’altra, a volte mi sono accontentata di una sola. In questo libro ci sono le vite e i destini intrecciati di un paesino americano di inizio Novecento, che si racconta ai passanti attraverso gli epitaffi sulle tombe di chi abitava lì.
Incontrerai ogni genere di umanità, santi e peccatori, giusti e corrotti, innocenti e colpevoli, gente che ama e gente che odia, e ti sfido a non riconoscere qualcosa del nostro tempo in un qualche verso, a non ritrovare tra le parole un conoscente, o amico, o familiare.

È una raccolta che ha tanto da dire, che puoi aprire in un punto a caso anche dopo anni e avrà di sicuro ancora qualcosa da insegnarti.

Almarina, di Valeria Parrella (Einaudi).

Come può un libro così breve contenere così tanto? Qui dentro non ci sono parole, non ci sono frasi né pagine, ci sono mondi, universi, galassie. C’è così tanto su cui riflettere, c’è sincerità (una certa franchezza, direi), amore e dolcezza.

Almarina è raccontato in prima persona da Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica nel carcere minorile di Nisida, a Napoli. Un giorno, entra nel carcere Almarina, una ragazza fuggita dalla Romania per salvare se stessa e il fratello. E la salvezza è possibile.
La realtà narrata in questo libro è dura e a volte poco gentile, ma davvero potente. Il racconto procede come un flusso di pensieri della protagonista, quasi come se l’avessimo di fronte e ci stesse parlando.
È un libro che si legge in fretta, ma che riecheggia a lungo.

*
E ora, il motivo per cui hai letto fino a qui (o per cui hai saltato tutto il resto), il momento della verità, la soddisfazione della curiosità: perché proprio questa immagine?

Ho scattato la foto a Cala Gadir, sull’isola di Pantelleria, nel 2016. Quell’estate dovevo fare un viaggio in Terra Santa: Gerusalemme, Petra, il deserto… Ma è saltato tutto e all’ultimo secondo (cambio di programma!), la meta è diventata Pantelleria. Un’isola incredibile, surreale e fantastica, che non rientrava nei piani ma si è rivelata meravigliosa.

Insomma, quella foto sta lì a ricordarmi che ogni cambio di programma può portare a qualcosa di indimenticabile. Sai che noia, se tutto va come previsto?

Se per una volta è andato (quasi) tutto come previsto, mentre mi leggi potrei essere su una spiaggia della Sardegna orientale, a godermi finalmente una settimana di vacanza.

Perciò, ti saluto!

Alla prossima e… Avanti tutta!

IL MAGICO MONDO DELLA TRADUZIONE

(ovvero, di quella volta in cui ho scoperto cosa fosse)

Ormai tutti, bene o male, sappiamo cos’è la traduzione. Sappiamo che fa parte della nostra vita molto più di quanto ne siamo coscienti, che alimenta di continuo le nostre giornate.

Oggi vorrei parlarti di quando mi sono resa conto di quale portentosa magia fosse.

Andiamo un po’ indietro negli anni, a quando ero una pargoletta iperattiva e curiosa. A quanto pare, le uniche cose che mi tenevano buona erano: il gelato, le passeggiate nel cuore della notte (fino ai tre anni) e i libri. Già, i libri.

Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando in terza elementare la maestra di italiano ci portò in biblioteca. Lì presi in prestito il primo libro di una lunghissima serie. “Hai un mese per restituirlo e se non lo finisci in tempo puoi telefonarci per prolungare”, così disse la bibliotecaria. Più o meno, ecco, non ricordo le parole esatte. Ma andiamo avanti.

Il libro che scelsi era Il segreto della famiglia Tenebrax, della collana Geronimo Stilton. Dopo tre giorni l’avevo finito. Lo rilessi un sacco di volte, prima di riportarlo in biblioteca il mese dopo. Ricordo che non lo restituii prima perché pensavo che quella data fosse un appuntamento

Diventai un’assidua frequentatrice della biblioteca e ormai le bibliotecarie si erano abituate a quella nanetta che vagava per gli scaffali col naso all’insù, o rannicchiata tutta storta per arrivare a leggere anche l’ultimo titolo proprio laggiù in fondo.

Fu durante una delle mie esplorazioni che trovai un libro in inglese, che avevo già letto in italiano. Penso fosse il primo volume della serie Artemis Fowl, di Eoin Colfer. Ma come? Perché mai qualcuno dovrebbe scrivere lo stesso libro in due lingue? Insomma, i libri in italiano sono scritti per gli italiani e quelli in altre lingue sono scritti per le persone che parlano le altre lingue… O no?

Misi a confronto i due libri. Davvero parlavano della stessa storia? Erano diversi, le copertine, le dimensioni… Cominciai a sfogliarli con attenzione, una pagina alla volta; fu allora che lessi: “Traduzione di Angela Ragusa”.

Ci misi un po’ a capire, ma poi, l’illuminazione. Certo, c’era qualcuno che scriveva in italiano i libri in altre lingue, perché sennò come altro avrei potuto leggere Roald Dahl, o Astrid Lindgren, o Eva Ibbotson, o…
Quando tornai a casa presi il dizionario, il favoloso Zingarelli del ’94, e mi lessi tutte le entrate che cominciavano per “tradu-”. Fu così che scoprì l’esistenza della figura del traduttore, un vero mago, che sapeva trasformare i libri scritti in altre lingue per farli leggere a me, che le lingue non le sapevo.

Probabilmente fu in quel momento che il mio subconscio decise che quella sarebbe stata anche la mia strada.

Cominciai a tradurre per puro diletto le storie dei libri che ci davano per le vacanze (per capirci, quelli della Black Cat – Cideb, che avevano anche il CD). Mi divertivo un sacco, soprattutto a rileggere, perché si capiva benissimo che quello che avevo scritto era influenzato dalla lingua di partenza e spesso la ricalcava.

Non ho sempre voluto fare la traduttrice, ho sognato di essere maestra di italiano, poi scrittrice, poi egittologa, in quarta superiore avevo persino preso in considerazione una laurea in biotecnologie o in chimica. In tutti questi cambi di direzione c’era però sempre un punto fisso: avrei di sicuro voluto studiare all’estero, perché l’italiano non mi bastava, avevo bisogno di altre lingue, di quello che solo loro sapevano trasmettermi, delle parole che mi sembrava esprimessero meglio un certo concetto, come quando ci si arrabbia e si impreca in dialetto.

Infine, ho scoperto che con la traduzione potevo essere quello che volevo. Dovevo lavorare per forza con due lingue in contemporanea e potevo cominciare con un testo in inglese, la settimana dopo esplorare il Congo col francese, il mese seguente avventurarmi in Perù con lo spagnolo. E non se ne ha mai abbastanza! Tutto diventa interessante, ogni testo è una sfida, ogni frase contiene un insegnamento, le parole in apparenza più semplici sono spesso quelle più difficili da trasportare nell’altra lingua. È un mondo di continue scoperte, un viaggio infinito alla ricerca del termine giusto, che può andar bene in quel contesto, ma sarà fuori luogo in un’altra frase. Allora via di nuovo, sempre alle calcagna di quella parola che “diavolo, ce l’ho sulla punta della lingua!”.

Come ormai avrai capito, per me la traduzione più affascinante è proprio quella letteraria, dove il traduttore diventa un giocoliere di parole, un equilibrista di frasi. Non è facile stare in equilibrio in questo mondo, perché trappole e tranelli sono dietro l’angolo e ogni parola dev’essere soppesata con attenzione. Bisogna fare tanta pratica, allenarsi con grande costanza come per una maratona. Finora il riscaldamento sta andando bene, non vedo l’ora di cominciare a correre sul serio.

Alla prossima dunque, e… Avanti tutta!

PER TRADURRE BENE BISOGNA LEGGERE BENE

(un’esperienza di lettura e due consigli, anzi tre)

Eccomi qui, con un nuovo aggiornamento delle mie avventure. Il mese scorso ti avevo accennato di un corso per me molto importante, che mi terrà impegnata fino a novembre. Si tratta di un seminario per traduttori letterari, organizzato dalla sede torinese della scuola per traduttori di Salamanca, in collaborazione con la casa editrice Lindau, concepito per essere super pratico e dare agli studenti uno sguardo sincero e reale sul mondo della traduzione letterale dallo spagnolo all’italiano.

Fin dalla primissima lezione, la nostra insegnante ha sottolineato il fatto che per tradurre bene è importante leggere tanto, soprattutto nella nostra lingua madre. Ci ha quindi consigliato una lista di libri di scrittori italiani contemporanei, nomi che stanno lasciando un segno nella letteratura.

Quando scelgo una lettura, non seguo sempre un criterio preciso, soprattutto quando non conosco l’autore. Nella lista, l’unico di cui avevo già sentito parlare era Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con il libro Le otto montagne. Il titolo era fra i consigliati, perciò la prima scelta è stata facile. Per la seconda, invece, ho deciso di puntare su una scrittrice. Ho scelto infine Nadia Terranova, col suo libro Addio fantasmi, finalista al Premio Strega 2019. E qui apro una parentesi sullo strambo perché della mia scelta. Avevo appena finito di leggere La signora Bovary nella traduzione della scrittrice Natalia Ginzburg, la biblioteca dove vado a reperire i libri è intitolata a Natalia Ginzburg, e la citazione che apre Addio fantasmi è presa da un’opera di…? Natalia Ginzburg. Una scelta logica, no?

Addio fantasmi parla dell’assenza di un padre, malato di depressione, che un giorno si è alzato dal letto e non è più tornato. Parla del mare di Messina, dell’acqua piovana che filtra dal tetto di casa fino a sfondarlo. Di un rapporto tra madre e figlia che diventa un calderone di rabbia e frasi non dette. Dell’amicizia tra due ragazzine, che si logora a poco a poco fino a farle diventare quasi estranee. Del matrimonio stanco in cui la protagonista, Ida, si rifugia. Parla di sogni e incubi, del terrore di non sapere, di non ricordare.

In questo libro, l’acqua è onnipresente, sia come realtà fisica che come metafora. Compare nei sogni di Ida, nei suoi ricordi, è pioggia e mare.

È un libro che va dritto al cuore, letteralmente! Soprattutto nella prima metà, ci sono stati dei momenti in cui durante la lettura mi sono proprio portata una mano sul cuore, come per proteggerlo dalle frasi che stavo leggendo. Nadia Terranova non ci va leggera, espone fatti e pensieri senza filtri e mi ha fatto scendere qualche lacrima di dolore. Ma c’è anche tanta dolcezza in quello che scrive. Il finale, poi, una vera catarsi.

Ho avuto bisogno di una giornata intera di pausa dalla lettura per digerire tutto quello che l’autrice ha costruito e smontato in me grazie al suo libro; infine ho cominciato Le otto montagne.

Come penso tu abbia già capito, il filo conduttore di questo secondo testo sono proprio le montagne, raccontate in un modo meraviglioso, così reale e vivido.

Anche in questo libro il protagonista, Pietro, ci parla del rapporto con suo padre, per cui la montagna è sinonimo di felicità. Ci racconta inoltre dell’amicizia senza tempo con un ragazzino conosciuto in un paesino ai piedi del Monte Rosa. Questo personaggio, Bruno, è di grande importanza nella storia ed è probabilmente il mio preferito. Personaggi in secondo piano, ma fondamentali, sono le donne. Tutte forze della natura: la madre di Pietro, la madre di Bruno, e Lara, che incontrerai nella terza parte della storia.

Questo secondo libro mi è sembrato in qualche modo opposto al primo, ma tocca temi così simili, che non ho potuto evitare di metterli a confronto.

Non mi dilungherò molto, non ti preoccupare, ma davvero ne sono rimasta entusiasta e volevo rendertene partecipe!

Sono narrati entrambi in prima persona, ma mentre il primo si colloca in una specie di dimensione onirica della realtà, il secondo è più pratico, concreto, le cose stanno così punto e basta, o riesci ad arrivare in cima alla montagna, o torni indietro.

Così come in Addio fantasmi la casa di Messina ha un ruolo centrale nella narrazione, anche in Le otto montagne le case sono fondamentali. Sono davvero un rifugio, un luogo amato e pieno di ricordi. Mentre nel primo libro il mare custodisce i ricordi, ma rappresenta anche un modo per dimenticare e, forse, sparire, nel secondo libro la montagna è uno scrigno per la memoria, conserva le tracce di chi è passato prima di noi, di quello che è accaduto nelle stagioni precedenti.

In merito alla spiegazione del titolo “Le otto montagne”, quanto l’ho amata! Non ti dico niente, perché non mi sembra giusto privarti della bellezza della scoperta, sappi solo che in tre parole si può racchiudere la filosofia di una vita intera.

Non sto a dirti di più, spero di aver attirato la tua curiosità con queste mie riflessioni da lettrice contenta. Credo davvero che entrambi questi libri ti possano piacere, perché le storie sono semplici, ma profonde, e lasciano un segno.

Concludo con un ultimo consiglio: Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin. Ho seguito la presentazione che è stata fatta la settimana scorsa sulla pagina Facebook della casa editrice E/O, in cui proprio Nadia Terranova intervistava l’autrice francese, tramite l’interpretazione consecutiva di Francesca Ciotti. Ti riporto questo commento della Terranova: “Desideravo moltissimo leggerlo, desideravo moltissimo entrare in un romanzo che mi portasse dentro l’argomento di cui deve parlare la letteratura, quindi la vita e la morte, c’è poco altro da fare, la vita e la morte e l’amore, e ci sono tutte e tre queste parole dentro questo libro”.

Se ti va, fammi sapere se hai già letto questi titoli e che cosa ne pensi, soprattutto se hai qualche altra perla da consigliarmi.

Alla prossima e… Avanti tutta!

APRIRE PARTITA IVA COME TRADUTTRICE

(In quarantena. Una storia vera.)

Ho deciso di mettermi in proprio alla fine del 2019, in tempi non sospetti, con un piano ben delineato che mi permettesse di prendere a poco a poco coscienza del mio nuovo stato (lavorativo, economico, finanziario, sociale, mentale…).

Ecco come sarebbe dovuta andare.

Gennaio: ultimo mese di lavoro come dipendente in azienda.

Febbraio: ho alcune cosette da portare a termine, ovvero un master online e l’ultima traduzione di una trilogia, intanto comincio a fare chiarezza sul regime per la partita IVA.

Marzo: il mese del mio compleanno! Un sacco di festeggiamenti, indagine a tappeto su tutte le iniziative per traduttori, primo incarico di una settimana come mediatrice francese-italiano, due bellissimi fine settimana di seminario intensivo a Torino.

Ecco com’è andata veramente.

Gennaio e febbraio sono andati secondo i piani, ogni mia mossa era pervasa da una sensazione di rilassatezza che si è puntualmente dimostrata troppo bella per essere vera.

Già a fine febbraio cominciavano a esserci i primi timori, ma le notizie non erano chiare, precauzione sì allarmismo no, quindi proviamo a fare finta di niente.

Arriva marzo e mi è toccato fare i conti con la realtà, tutti noi (chi più, chi meno) ci siamo resi conto della gravità della situazione, ancora un po’ increduli. Ho aperto la partita IVA in fretta e furia perché mi era stato assegnato un incarico per i primi giorni di marzo, ma ovviamente è saltato tutto, ogni piano fatto per quel mese è andato a farsi benedire e mi sono ritrovata spaesata. E mo’ che faccio?

Per di più, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di farmi un bel regalo per il compleanno, dichiarando lo stato di pandemia proprio in quella data. Dopo alcuni giorni di smarrimento, in cui arrivavo a sera senza aver concluso niente di concreto, ho deciso di rimboccarmi le maniche.

Ho fatto una lista di tutto quello che avrei dovuto mettere a punto per potermi presentare in modo professionale come traduttrice, di tutto quello che avrei dovuto imparare per muovermi nella selva del mercato linguistico, per non parlare di tutto quello che non sapevo sulla creazione di una propria immagine online. Guardando quella lista mi sono detta: “Non sai un… accidente”.

Ho cominciato iscrivendomi alle varie piattaforme per traduttori e ai gruppi di discussione su Facebook, così da sondare un po’ il terreno. Per ora ti risparmio i miei commenti sulla mirabolante fauna che ho incontrato.

Il passo più difficile è stata la redazione del curriculum, ho voluto che fosse incentrato soltanto sulla rappresentazione delle mie reali intenzioni lavorative, perciò ho cominciato a tagliare, accorciare e sfrondare, facendo un brain storming con tanto di pennarelli colorati una volta alla settimana, per vedere se la versione precedente mi soddisfaceva.

A fine marzo mi sono accorta di essermi iscritta a troppi corsi, seminari, dirette, appuntamenti, di traduttori, scrittori, librai, linguisti… così tanti che rischiavo di perdere di vista l’obbiettivo, perché la maggior parte non mi era davvero utile, ma mi serviva per pensare che così facendo mi stavo tenendo occupata. Mi sono dunque immersa nel mondo della presenza online, di cui davvero non sapevo niente, seguendo anche dei corsi in spagnolo di varie persone esperte di SEO (tanto per complicare un po’ le cose).

Dopo essermi resa conto che stavo di nuovo andando alla deriva, perché continuavo a uscire dalla rotta mentre cercavo di delinearla, ho cominciato a selezionare con molta più cura a quali offerte di lavoro proporre una quotazione. Alcune agenzie mi hanno risposto e un paio stavano per assegnarmi un incarico, ma la maggior parte di quei progetti non è riuscita a partire.

Insomma, non avrei potuto scegliere un periodo peggiore per aprire la partita IVA, ma non tornerei indietro: era già da più di un anno che rimandavo, nascondendomi dietro al fantomatico vantaggio della ritenuta d’acconto. Ma ora non ci sono più scuse, si fa sul serio.

Domani comincerà il seminario intensivo che tanto attendevo, un progetto che nella sfortuna è diventato un corso più ampio proprio grazie al fatto di essere stato rimandato, per cui mi terrà impegnata fino a novembre. È un corso su cui faccio un grandissimo affidamento perché potrebbe darmi indicazioni preziose.

Al momento, infatti, non ho la più pallida idea di cosa mi succederà nei prossimi mesi, ho soltanto una traccia della strada che vorrei seguire, ma dopo tutti questi mesi passati ad assistere al sistematico stravolgimento di ogni programma, le deviazioni non mi spaventano più. O almeno, non più così tanto.

Spero che, in occasione dell’aggiornamento del mese prossimo, riesca a parlarti di qualcosa di bello che è andato in porto, o magari di qualcosa che sta prendendo forma, chi lo sa!

E a te invece, com’è andata? I tuoi progetti sono stati rimandati o ne sono fioriti di inaspettati? Se ti va di condividere la tua esperienza, scrivimi pure, non vedo l’ora di leggerti!

Alla prossima e… Avanti tutta!

TRADURRE LIBRI CON BABELCUBE

(ovvero, da qualcosa bisognerà pur cominciare!)

Può avere senso tradurre con Babelcube? Negli ultimi tempi mi è capitato che alcune persone mi chiedessero informazioni su questa piattaforma, perché si sono ritrovate con quell’improvvisa abbondanza di tempo libero che la quarantena continua così generosamente a regalarci.

Ti spiegherò in breve di cosa si tratta.

È una piattaforma gratuita che ospita due categorie complementari: autori e traduttori. I primi possono caricare i propri libri, di qualsiasi genere e lunghezza, che verranno poi tradotti dai secondi.

Come puoi immaginare, io ti parlerò dal punto di vista del traduttore.

Innanzitutto, è necessario crearsi un profilo su Babelcube. È veloce e gratuito, quindi potenzialmente chiunque può avervi accesso.

Una volta diventato membro di questa grande comunità, potrai cercare un libro da tradurre nella sezione apposita chiamata, per l’appunto, “Books”.

Potrai scegliere la lingua di origine e il genere del libro, ce ne sono davvero un’infinità!

Quando avrai trovato un titolo di tuo interesse, dovrai mandare un’offerta di traduzione, indicando una stima del tempo che impiegherai e traducendo un breve estratto.

Toccherà poi all’autore decidere se accettare la tua offerta o meno. In caso di esito positivo ti invierà il libro sotto forma di documento Word e potrai cominciare a tradurre.

Primo punto critico della piattaforma: dovrai giudicare il libro dal breve estratto che ti verrà fornito. Potrebbe essere la parte più intrigante e meglio scritta del libro, e magari procedendo con la traduzione scoprirai che il resto non è altrettanto ben curato, o che alla fin fine non è poi così interessante come pensavi. Personalmente, abbandonerei la traduzione di un libro solo se questo diventasse davvero scadente o contenesse opinioni per me insostenibili, ma è solo il mio punto di vista. Anche perché ricordiamoci che, almeno per il momento, lo stiamo facendo gratis.

E in ogni caso, se i libri fossero disponibili in gran parte o per intero, sono sicura che qualcuno sfrutterebbe la piattaforma come una sala lettura, e non è certo quello il suo scopo.

Un secondo punto critico è, come ho detto prima, che chiunque può accedervi. Questo significa che non c’è una vera e propria garanzia riguardo alla qualità dei testi e delle traduzioni, perciò spetta a ciascun traduttore decidere quanto impegno metterci e quanto tempo dedicarci.

Finita la traduzione dovrai svolgere un compito che, a mio avviso, è molto ingrato: dovrai essere il revisore di te stesso. Purtroppo è difficile riuscire ad auto correggersi tutte le sviste, e devo dire che i più antipatici sono gli errori di battitura; si mimetizzano e sgusciano via per poi ricomparire beffardi una volta pubblicato il libro.

Un occhio esterno sarebbe l’ideale, infatti si potrebbe ovviare a questo compito creando una squadra proprio sulla piattaforma, in cui ci si può proporre come traduttore, revisore o come entrambi. Non ho ancora avuto modo di sperimentare questa opzione, perciò non so dirti come funziona nella pratica, ma magari prima o poi ci faccio un pensierino.

Un lato positivo è che una volta consegnata la traduzione non avrai più bisogno di pensare a nulla, sarà infatti Babelcube a prendersi carico della pubblicazione su diverse piattaforme online. Dopo qualche settimana il libro sarà dunque disponibile in formato ebook.

Quando ho aperto l’email di Babelcube che mi segnalava l’uscita del mio primo ebook tradotto ero molto emozionata, sono andata subito a cercarlo su internet e sì, c’era proprio! Devo però ammettere che il mio lato irriducibile di lettrice difensora della carta ha gridato al tradimento, ma che ci vuoi fare? Un caro amico mi ha confessato apertamente di essersi schierato dalla parte degli ebook, eppure gli voglio ancora bene.

Bando alle ciance, passiamo alla domanda che stavi aspettando: come funzionano le royalties?

Babelcube esegue i versamenti su PayPal, quindi se non hai il relativo account ti consiglio di aprirne uno. Dato che si tratta di un sito americano, i pagamenti avvengono in dollari. Ci sarebbe da fare un discorso a parte riguardo la tassazione di questi dollari, ma non sono esperta al riguardo, quindi ti anticipo soltanto che dovrai compilare un formulario per certificare che non sei cittadino statunitense e specificare il paese in cui risiedi.

Il pagamento avviene in automatico una volta che sul tuo conto Babelcube avrai accumulato almeno 10 dollari. Posso confermare di aver ricevuto dei pagamenti, quindi su questo si può stare tranquilli.

Inoltre, circa ogni 3 mesi arriva un resoconto delle vendite in un pratico foglio excel, che rimane sempre disponibile sul tuo account Babelcube.

La divisione dei ricavi viene riportata in modo cristallino sul contratto di traduzione, con una pratica e inequivocabile tabella. Inizialmente il traduttore riceve il 55% lordo, poi con l’aumentare delle vendite la sua percentuale diminuisce a favore di quella dell’autore.

Soppesati i pro e i contro, mi sento di consigliare l’esperienza, soprattutto a chi si è appena laureato in traduzione. Bisogna pur cominciare in qualche modo! E questo è senza dubbio una buona palestra. Ti permette di capire se sei in grado di gestire la traduzione di un libro, ti fa riflettere sulle strategie adottate e sul tuo modo di portare a termine un lavoro del genere. Può anche essere utile per imparare a fare domande all’autore, capire quali sono necessarie e a quali invece puoi rispondere in autonomia con un po’ di ricerca. Per intenderci, puoi chiedere allo scrittore di spiegarti una particolare scena o un passaggio che non hai capito bene, ma non penso che ti risponderà se invece gli fai domande sulla resa linguistica o gli presenti diverse opzioni tra cui scegliere. Però è tutto relativo, ogni rapporto con l’autore ha le sue caratteristiche uniche.

Spero di aver soddisfatto la tua curiosità e se hai domande o commenti, o se hai già sperimentato Babelcube e vuoi condividere con me la tua esperienza, non esitare a scrivermi, ti leggerò molto volentieri.

Alla prossima e… Avanti tutta!